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Sul lavoro

| Marina Greco | CEM Editoriali Storici, Domenico Calarco sx


Il lavoro dell'uomo: una condanna senza scampo? - 1976/5.

La quarta annata storica della rivista saveriana CEM Mondialità (anno 1975/76) è di particolare interesse, perché ha la finalità d’individuare e trattare alcuni valori morali essenziali nella prospettiva di una pedagogia missionaria. Ne vengono affrontati sei: vita, libertà, eguaglianza, giustizia, lavoro e speranza. Mi soffermo oggi sul quinto: il lavoro e, come di consueto, tento qui di offrire non un abstract, ma una breve riflessione, prendendo spunto dall'editoriale, che invito a rileggere, perché dà l’opportunità di considerare quanto poco in effetti la società civile sia riuscita a interpretare e risolvere nel concreto il disagio sociale denunciato più di quaranta anni fa. Cambiano i tempi, si evolve il linguaggio (quello degli anni settanta è riconoscibilissimo perché non alieno talora da toni che oggi possono suonare ideologizzanti), i problemi restano per lo più irrisolti.
Rimangono infatti le categorie dei lavoratori sottoccupati, in fase di licenziamento[1], in cassa integrazione, i disoccupati[2], gli inoccupati (quelli che un lavoro non l’hanno mai avuto); ci sono poi i lavoratori clandestini, quelli sfruttati, quelli non soltanto minorenni, ma decisamente bambini.

Il concetto di lavoro non è mai sfuggito ad una sostanziale ambiguità: è occasione di realizzazione della persona, ma anche necessità strumentale alla sopravvivenza, che in molti, troppi casi - per una società civile - si trasforma in forza di asservimento e in strumento di sottrazione di dignità.
Parimenti, se ciò che spinge l’uomo ad agire è la motivazione a cercare i mezzi per vivere, emanciparsi e trovare un senso al proprio esistere, nell’esperienza lavorativa è insita l’ambiguità fra necessità e desiderio e fra diritto e dovere. In ogni caso la dimensione lavorativa non esaurisce in alcun modo la dimensione umana.
L'antica dicotomia tra vita contemplativa e vita attiva, superata e probabilmente trascesa nel motto benedettino “ora et labora”, andrebbe ristudiata e rielaborata laicamente da uno Stato che si dice essere repubblica fondata sul lavoro.
Lo sviluppo delle tecnologie, che parzialmente solleva uomini e donne dalle fatiche fisiche e mentali, crea “un avanzo” di energie che governo, imprenditoria e sindacati dovrebbero essere capaci di canalizzare nella promozione della qualità del lavoro, piuttosto che nella fideistica ricerca dell'aumento della produzione.
Lotta all'evasione fiscale, stigmatizzazione assoluta del lavoro in nero, ricorso a forme di tassazione progressiva più eque, redistribuzione della ricchezza, riduzione dell'orario lavorativo e azzeramento di tutto ciò che toglie all'esperienza lavorativa il suo vero valore aggiunto: autonomizzazione e partecipazione alla crescita del benessere di tutta la comunità sociale di riferimento. Questi i valori aggiunti dell'esperienza lavorativa, che dovrebbero essere priorità in una società culturalmente avanzata.
Lo spazio per l’esercizio della capacità creativa in ambito lavorativo non è da intendersi come una favoletta/giochetto risibile o come spazio ludico per bambini cresciuti, ma come tempo donato al miglioramento della vita pratica di tutti. Questo significa attribuire valore al lavoro di ciascuno.
La creatività è il quartier generale di qualsiasi opera dell'uomo, ma richiede di essere interpellata.
La creatività, prima di essere un'idea, prima di corrispondere ad una capacità indagata dalla ricerca nelle scienze umane, è una domanda di senso.
Poiché siamo in epoca di campagne elettorali, mi sarebbe piaciuto sentire da qualche parte l’idea d’inserire fra i “doveri” delle persone che lavorano quello d'inviare proposte concrete di miglioramento ai propri datori di lavoro. Si badi bene, non parlo di quei miseri questionari, frutto di teorie avulse dalla prassi. tramite i quali talora amano deliziarci in Europa per occupare teorici di vario genere, spesso “psicologizzati”, piuttosto che muniti di una solida preparazione.
Chissà perché il telefono squilla ad ogni momento per proporre campagne pubblicitarie di servizi e merci, e perfino di politically uncorrect richieste di sostegno al voto; chissà perché si moltiplicano questionari standardizzati per misurare la “soddisfazione dell'utente”; chissà perché non s'interpella invece direttamente chi la ricchezza contribuisce a produrla tutti i giorni.
Dev'esserci alla base una vera e propria distorsione culturale, etica e dell’immaginazione.
Mi auguro che in un futuro molto prossimo la politica si organizzi per raddrizzare le storture.
Non vorrei arrivare a desiderare l’abolizione dei partiti politici e nuova forma di democrazia diretta, allo stato dell’arte, sia chiaro, tutta da reinventare e tutta da verificare.

[1] http://www.ilsole24ore.com/art/impresa-e-territori/2018-02-19/embraco-non-blocca-licenziamenti-calenda-totale-irresponsabilita-i-lavoratori-144019.shtml?uuid=AE3jld2D&refresh_ce=1

[2] http://dati.istat.it/Index.aspx?DataSetCode=DCCV_TAXDISOCCU1

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DOMENICO CALARCO
Il lavoro dell'uomo: una condanna senza scampo?, in "CEM Mondialità", IV 1975-76/5, p. 3.

Ci chiediamo se sia ancora possibile considerare il tempo del lavoro dell'uomo come il tempo non della schiavitù ma della creatività nell'ambito della nostra società, la cui norma d'azione è soltanto l'imperialismo del denaro.
Un imperialismo che, misurando la produzione in termini esclusivamente monetari e considerando la concorrenza come la legge suprema dell'economia, non esita a sacrificare al pro fitto la libertà e la creatività dell'uomo lavoratore, ridotto ad oggetto e asservito a un sistema economico, i cui ordinamenti sono alienanti, degradanti e disumani.
Protesta tristamente Ishikava Takuboku, poeta giapponese: "Lavoro lavoro sempre / Ma - non so perché -/ Affonda nella miseria / La mia vita. / Immobile e muto / Guardo le mie povere mani."

Affonda nella miseria la vita

  • di coloro che sono disoccupati, sottoccupati o messi in cassa integrazione;
  • di coloro che sono costretti ad accettare un lavoro clandestino mal retribuito e sfruttato;
  • dei "piccoli fuorilegge del lavoro": i bambini oppressi in lavori inadatti;
  • di coloro che appartengono ormai alla "terza età": declassati, emarginati ed abbandonati dal mondo consumistico della tecnica;
  • di quanti sono occupati in condizioni disastrose per la salute, l'orario, la vita fami liare;
  • dei paesi sottosviluppati, che sono sfruttati dal potere delle grandi imprese multinazionali;
  • delle classi meno favorite che, a causa della distorsione dei modelli economici, portano il peso del costo dello sviluppo e subiscono l'erosione dei salari;
  • di qualsiasi lavoratore che, umiliato depauperato e sfruttato dal capitalismo o dallo statalismo oppressivo, non è ancora in grado di "vedere il suo volto in un mondo costruito dalle sue mani".

Non è certo tempo di parole e di sterili violenze di parte; è invece necessario un cambiamento di mentalità, accompagnato in ciascuno da una presa di coscienza più viva della propria responsabilità e da una azione effettiva contro le stridenti ingiustizie nel mondo del lavoro, causate dalla logica egoistica e materialistica della nostra società protesa solo verso una ricchezza concentrata, la cui tragica conseguenza è la disumanizzazione del lavoro e quindi dell'uomo. A questo proposito dovrebbe farci riflettere sulle nostre responsabilità sociali il monito di Ghâlib, poeta pakistano: "Studiammo molte parole d'amore / creammo molte parole d'amore; /partiti, infine, dal mondo, lasciammo, / non dette, troppe parole d'amore".

Di qui il bisogno per ciascuno di noi di riscoprire insieme il lavoro come valore: atto creativo in quanto frutto della intelligenza e della libertà dell'uomo, il lavoro (non solo quello manuale) non può essere ridotto a un mezzo per la soddisfazione di un bisogno biologico, né a un "elemento contabile per calcolare il prezzo della merce". Il lavoro, come responsabilità inderogabile per qualificarsi uomini, è l’espressione più autentica della dignità dell'uomo e un elemento essenziale per la promozione e il perfezionamento della persona. Osserva infatti P. Teilhard de Chardin: “Il nostro lavoro ci sembra principalmente un mezzo per guadagnarci il pane quotidiano. Ma ha una virtù finale ben più elevata: […] tutti noi, artisti, operai, scienziati, qualunque sia la nostra funzione umana, possiamo precipitarci verso l'oggetto del nostro lavoro come verso uno sbocco aperto al supremo compimento dei nostri esseri".