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Sulla vita

| Marina Greco | CEM Editoriali Storici, Domenico Calarco sx


No alla "Educazione per la morte" - 1975-76/1

In “No alla Educazione per la morte”, primo di una serie di sei editoriali nei quali s’intendeva mettere in luce valori fondanti del pensiero cristiano, si parla di vita...Si parla di vita, eppure oggi l’unico settore che non conosce crisi è quello della produzione e del commercio di armi, e caso mai qualcuno sostiene che sia giusto che tutti se ne muniscano per difendersi.
Ve lo immaginareste Gesù di Nazareth che si difende con un'arma?Dev’esserci qualcosa che non quadra: è una semplice questione di logica.
Sarebbe facile dire che se vogliamo dire no all’educazione per la morte, intanto, per coerenza, bisognerebbe smettere di produrre e vendere armi. Se questo non si può fare, perché la logica dello scacchiere politico economico internazionale - che non è quella cristiana - non lo permette, ciò non equivale a dire che la produzione e il commercio di armi siano cosa necessaria e giusta.

In fin dei conti ciò che accumuna molti dei modi di esprimersi di chi oggi si barcamena fra logiche economiche e tentativi di dirsi cristiano o almeno eticamente corretto è una  palese tripla mancanza: di senso della realtà, di logica, di chiarezza. 

  • Il senso della realtà dovrebbe suggerire che non tutto ciò che è necessario ai sistemi di governo di ogni tempo va anche bene.
    Un esempio? Al tempo del nazismo molti erano nazisti perchè si erano fatti turlupinare da un criminale o erano criminali essi stessi, oggi lo sappiamo (quasi) tutti, ma negli Anni Trenta in Germania tanti (tutti?) dovevano almeno dirsi nazisti, per convinzione o per costrizione. Così anche in Italia: o eri fascista e mussoliniano o, semplicemente, eri un sovversivo da mandare al confino, da arrestare o da uccidere. Le dittature sono tutte così.
  • La logica dovrebbe suggerire che non si possono realizzare progetti che includono motivazioni troppo contraddittorie.
    Un esempio? Non posso dirmi cristiano e non accogliere lo straniero (e/o il "peccatore", per dire...anche l'emarginato...dovrei avere la capacità di gestire la difficoltà).
  • La chiarezza di ciò che si dice implica che le parole e gli atti che camuffano le nostre vere aspettative e i nostri desideri a beneficio di ciò che vogliamo far credere agli altri o di come vogliamo apparire, sono false e, generalmente, vengono riconosciute per tali dai più avveduti.

Così, d’altronde, l’uomo contemporaneo tende a concepire la libertà: libertà è ciò che voglio essere, indipendentemente dagli altri e dalla verità, che, per comodo principio inventato si dice non esistere, che come concetto obsoleto.
È impossibile, tuttavia ci crediamo o facciamo finta ostinatamente di crederci.
La nostra è una società "'anti-vita'", si dice in CEM: efficienza, produttività, competitività, produttivismo, consumismo, tecnocrazia, meccanizzazione e, aggiungo, pregiudizi della moderna scienza, hanno messo sotto scacco il pensiero morale; con esso la religione.
“L’incondizionato riconoscimento del valore della vita” esige, prima della fede, e probabilmente anche prima della scienza, la capacità della mente di spingere lo sguardo un poco oltre lo strettamente contingente, oltre la condizione e la motivazione attuale.
Il politico – a differenza dello scienziato – è invece certo di poter affermare qualsiasi cosa, al di là di quanto egli stesso la consideri vera e/o concretizzabile, perché sa di essere sostenuto da assordanti e insieme sottili tecniche di comunicazione, che gli elargiscono una miracolosa credibilità. In altri termini riduce “il popolo” a cosa collettiva priva di possibilità d’intervento sulla realtà, a massa inerte. 
In Europa - e in Italia tanto per cominciare - abbiamo bisogno di uomini di governo e di leader istituzionali che utilizzino la loro mente, recuperando le connessioni – almeno quelle sinaptiche - tra linguaggio, conoscenze, pensiero filosofico, morale e senso della realtà.
Impresa non facile, ma allora, se non si riesce, meglio stare a casa a giocare con i soldatini, mentre noi magari torniamo ad uno slogan vecchio, non nostro, ma azzeccato: non armi di distruzione, ma armi d’istruzione ci vogliono. 

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DOMENICO CALARCO

No alla "Educazione per la morte",  in CEM Mondialità, IV 1975-76/1, p. 3.

La nostra è una società "anti-vita": la sua dinamica di rapporti fondata sull'efficienza, sulla produttività e sulla competitività viene giustificata dalla legge disumanizzatrice dell’uccidere per vivere meglio.

Una legge che da un lato non risolve affatto uno dei problemi più incalzanti dell'umanità, cioè la salute e perfino la sopravvivenza dell’uomo in un ambiente risucchiato dal vortice del produttivismo - consumismo; dall'altro esige il sacrificio dell’uomo sull'altare della scienza e della società tecnocratica e meccanizzata.

Noi tutti, intanto, segnati dalla fatica della vita quotidiana, che non è più vita, ci siamo rassegnati alla codificazione di questa legge, accettando per vera l'affermazione di coloro - uomini di scienza di tendenza positivista, cultori delle “scienze umane”, pensatori di tendenza strutturalista - per i quali la vita non ha alcun senso: è un assurdo.

Ma se noi crediamo che dare un senso alla vita sia un assurdo, che l'uomo sia un essere puramente materiale - un accidente biologico, “come un insetto tra gli insetti”, perché allora osiamo gridare allo scandalo di fronte al quadro desolante che ci offre la nostra società permissiva e amorale?

Dato che ci siamo rifiutati di credere che uno dei presupposti  essenziali per la sopravvivenza dell'umana società è l'incondizionato riconoscimento del valore della vita e, quindi, del diritto alla sua protezione e promozione integrale, non siamo forse noi i responsabili primi dello stato fallimentare di una società che abbiamo voluto fosse egoista con le sue leggi del profitto ad ogni costo, del potere alienante, della violenza eretta a sistema, della sopraffazione del debole e dell’indifeso, del materialismo pratico e del consumismo esasperato?

“Non mi pare di avere più alcuna ragione per continuare a vivere”, ci confessava tempo fa un giovane studente liceale. Quando la nostra società non dà più il senso della comunione e genera la solitudine - fonte di una enorme quantità di disadattamenti - quando irride l'amore perché rifiuta la vita e brucia la speranza lasciandoci al fondo della strada soli e a morire per mancanza d'amore, si fa allora acuto in noi il desiderio, il bisogno quasi, di fuggire il regno dei vivi per rifugiarsi nel regno dei morti:
E vidi
che qualcosa si muoveva tra i morti
Era una bimba.
La portai fuori sulla strada
Le chiesi
Chi sei
Da quando sei qui.
Non lo so
disse.
Come mai sei qui in mezzo ai morti
chiesi.
E quella disse
Tra i vivi non posso più stare.

(Peter Weiss, L'istruttoria, Einaudi).

Nonostante “in un mondo come il nostro, nella realtà quotidiana, i contrasti siano così forti che per vivere è quasi diventato necessario transigere con la coscienza, soffocarne la voce" (Eugenio Montale), proprio perché siamo certi che l'uomo è fatto per la vita e non per la morte, pensiamo che non sia tempo né di rassegnazioni né di fughe: è tempo piuttosto di impegno - a livello individuale e comunitario - a rendere ogni momento di vita un atto irripetibile di amore.

Di qui l'urgenza che gli operatori dell’educazione in generale e della scuola in particolare si assumano le loro responsabilità di fronte al compito di iniziare gli studenti a riflettere, per poi coerentemente operare, sul valore della vita, che ha il suo centro nell'uomo non oggetto, ma soggetto cosciente e libero: nell’uomo, cioè, persona che ha “coscienza di trascendere con la sua ragione e la vera libertà il mondo della irrazionalità e del determinismo e di avere un destino che supera quello degli altri viventi.