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Smemorati

| Enzo O. Verzeletti


E se praticando il metodo di Mosè dovessimo scoprire che gli ostacoli sono questione di memoria?

…Mosè si stava avvicinando al roveto ardente; avanzava lentamente, girando attorno al misterioso cespuglio di rovi che ardeva luminoso; stava rispondendo ad una voce che lo chiamava da lì, e stava cercando di capire di chi si trattasse.
Osservando e ascoltando, timoroso e curioso, percepì una voce che sembrava provenire dalle fiamme e diceva:
Ho visto le disgrazie del mio popolo in Egitto, ho ascoltato il suo lamento a causa della durezza dei sorveglianti e ho preso a cuore la sua sofferenza. Sono sceso per liberarlo dalla schiavitù degli Egiziani, e per farlo salire da quel paese fino a una terra fertile e spaziosa […] Il grido degli Israeliti è giunto fino a me e ho visto come gli Egiziani li opprimono. Ora, va’! Io ti mando dal faraone per far uscire dall’Egitto il mio popolo...” (Es 3, 7-10).
Mosè è ragionevolmente preoccupato, prima di tutto perché si sente inadeguato, poi perché pensa che gli Israeliti gli domanderanno almeno il nome di questa voce e qualche prova della sua credibilità; in ogni caso sarebbe meglio che andasse qualcun altro.
La questione si fa stringente: la voce rivela il proprio nome, consegna le prove, procura i mezzi e infine, come perdendo la pazienza, mette a fianco di Mosè anche un aiutante.

Certo: ci vuole molta fiducia, molto ottimismo, una grande passione per la libertà e anche una certa spregiudicata capacità di tenere insieme lucida razionalità e amorosa follia per entrare in questa logica.
Dunque il Signore manda un balbuziente accompagnato a ricordare al suo popolo smemorato d’intraprendere la via verso la liberazione dall’oppressione.
Effettivamente: perché accettare ciò che ostacola i bisogni di libertà, senso e coerenza?
Perché continuare ad agire come sempre, ripetendo gli stessi errori?
Perché girare e rigirare su se stessi come asini attorno alla mola?
Perché rimanere agganciati a modi di vivere di un passato che non corrisponde alle necessità attuali?
Nel futuro non troveremo forse ciò che siamo disposti a mettere in gioco oggi?
I sentieri dell’Esodo cominciano nel cuore.

Gli Israeliti si lagnavano con Mosè della loro condizione di servitù, prima e dopo la partenza dal luogo fisico della loro oppressione. Anche durante il viaggio verso la terra promessa andavano borbottando e addirittura rimpiangendo le cipolle che mangiavano da schiavi. - Almeno in Egitto mangiavano quelle! E non pativano la fame. - Malgrado la manna e le quaglie cadute dal cielo, continuavano a sguazzare nella la loro interiore terra di schiavitù, dove si erano stabilizzati ben bene. Malgrado la partenza.
Forse queste continue lamentazioni narrate nell’Esodo possono essere lette ad un ulteriore livello simbolico, come metafora di quell’altra forma di schiavitù, rappresentata dalla passività deleteria, incurante della libertà, vuota di attenzione.
E priva di memoria. Memoria di sé. Memoria del Tu.

“Fate questo in memoria di me”. E chi è questo “me” (guardando dalla nostra prospettiva di uomini) se non quel Tu eterno che sempre ciascuno di noi incontra, quando guardiamo un altro vedendolo, e riuscendo a metterci nei suoi panni? Allora la memoria di sé può riaffiorare. E, come Mosè, possiamo dire: “Eccomi!”. Potremmo scoprire di essere integri, perché in continuo dialogo col Tu eterno. E forse non vorremmo più tornare a sacrificare il Tu eterno, che si estende fin dentro i nostri cuori.

Non è facile comprendere e spiegare questa libertà, proprio perché la libertà prima di essere un diritto è da considerarsi come condizione interiore. E c’è sempre un luogo fisico nel quale si materializza la nostra personale condizione di schiavitù. Ma è proprio lì che, se restiamo vigili, possiamo, attraverso gli occhi dell’altro, scoprire la nostra fondamentale natura di esseri liberi. Certo nessuno ha mai detto che la via della libertà interiore sia semplice da percorrere.
Anzi frequentemente appare come una lotta, difficile per troppi.
Per chi perde la stima nell’altro. E automaticamente non si accorge di averla persa anche in se stesso.
Per chi ha incontrato troppo odio e disprezzo negli altri, e non si accorge di provarlo rancorosamente in se stesso.
Per chi critica l’indifferenza e non vede la propria.
Per chi ripete sempre gli stessi errori e qualcosa di nebulosamente rassicurante lo spinge a ripeterli, pur di non rischiare. Rischiare cosa? La vita?
Allora ci adagiamo lentamente, coricandoci perfino sopra il desiderio di cambiare, di trasformare ciò che avvilisce e ci avvilisce. Non si sogna neppure più.

Non farà male neppure a noi aprire, o riaprire, il Libro, lascia passare per la traversata del deserto, passaporto per l'altra riva.
Lasciamo che quella Parola rompa i confini.
Lasciamo che ci ricordi chi siamo e dove andiamo.
Sarà bello scoprire che anche la nostra vita è scritta a più mani.
Sarà bello scoprire che da lì qualcosa chiama e spinge a lasciare ciò che rinchiude, estranea, paralizza, narcotizza.
Lasciare, salpare, credere senza o anche con la paura che domani potrà essere diverso. Chi dice che sarà peggio? Dove è scritto? Quale sarebbe il “rischio ultimo”?

È necessario lasciare la nuova torre di Babele dove tutti sono uniformizzati, tutti parlano lo stesso linguaggio, impastano il nuovo bitume del settarismo, del fondamentalismo, della paura reciproca, della sorveglianza, dei bisogni indotti. Tutti arredi inutili per case che non abiteremo mai.

Il Libro, senza imporsi, è nelle nostre mani.
Difficile dopo averlo letto, o addirittura averlo attraversato, chiuderlo.
Ci parla di un Padre che chiama al cambiamento e alla trasformazione perfino colui che ha ucciso il fratello. Lo chiama e gli chiede: “Che ne hai fatto di tuo fratello?” Non rischierà la vita per questo Caino. Anche Mosè aveva ucciso un uomo, un fratello. Non perderà la vita per questo.

Il periodo della Quaresima è legato alla penitenza, quasi si trattasse di mettere in quarantena, ciò che più banalmente ci mette alla prova: cibo, chiacchere, trastulli.
Qui si tratta di un viaggio: di lasciare la terra dell'ombra per quella di luce.
Andarsene è prendere le distanze da ciò che racchiude, a volte mura peggiori di qualsiasi errore, quando si presentano come illusione di mondi possibili o amarezza di paradisi perduti.

La quaresima è un'elevazione; si tratta di “prendere quota” non sognando, ma alimentando quel fuoco interiore che brilla nel nostro suolo sacro, chiedendo a gran voce al Tu eterno che indichi concretamente la direzione.

Bellissimo sarà l’Exultet nella notte di Pasqua se l’inattività e il vagabondare svaniranno per dare spazio alla liberazione.
Meraviglioso sarà l’Exultet della notte di Pasqua per aver cercato non tanto di scalare le vette quanto di attraversare gli abissi, a cominciare dal nostro.
Splendente sarà l’Exultet la notte di Pasqua per lasciarsi abitare dal Verbo, dando carne alla speranza.

Finalmente memori, dal volto raggiante, lasciando la terra della schiavitù, per far fiorire il sorriso e la speranza sul volto degli altri.