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Legami

| Enzo O. Verzeletti - 10/11/2017


Una riflessione in margine al messaggio di Francesco per la giornata mondiale dei Poveri.
La discriminazione è come una pianta: dev’essere coltivata, curata, concimata, nutrita. Il rigetto ne è il getto turgido, vigoroso, rigoglioso, esuberante, pieno di vita.

Non esiste senza la costruzione sistematica del noi e del voi, del dentro e del fuori, dei ricchi e dei poveri, del Nord e del Sud, dei cristiani e dei non-cristiani; non esiste senza scavare alacremente fossati, moderne trincee; non esiste senza la costruzione di muri.
Cresce e trova il suo habitat naturale nell’indifferenza, nel non fare differenze tra un uomo e un animale, tra un uomo e una cosa, tra un uomo e il niente.

Interrogativi fastidiosi si stagliano davanti agli occhi di un risveglio difficile: “Abbiamo forse spezzato canne incrinate, passando con il trinciasarmenti?”
Vedere, sentire, agire: se non aiuta a risolvere il problema della miseria morale e materiale, non redime e non serve risarcire con le parole e nemmeno con la retorica sia pure di nobili intenti.
Il corpo di Cristo, della chiesa, quello composto da tutti gli uomini e le donne, quello che intendiamo universale – è questo il significato della parola “cattolico” - rimane smembrato, disarticolato, sofferente.

Le lamentele non guariscono il male. Neanche l’indignazione. Chi veste l’abito sacerdotale ha una responsabilità doppia. Forse l’anticlericalismo, almeno in parte, racconta la storia nascosta di un’aspettativa antica andata delusa.
S’impongono atti capaci di risarcire l’amore cristiano disatteso.
Sono certo che molte coscienze si stanno interrogando: incontro le persone, mi parlano, le ascolto. Che fare?
Il senso d’impotenza nei confronti di meccanismi troppo superiori alle nostre piccole forze personali, induce all’evitamento per non soffrire, si trasforma in fatalismo e finisce nell’indifferenza. Dall’impotenza all’indifferenza sono comprese tutte le sfumature di ciò che siamo abituati a sentir chiamare “peccato”: è ciò che nutre il drago che sta a guardia del risveglio alla vita. È un serpente che si morde la coda.
L’atto capace di risarcire l’amore disatteso è la costruzione attiva del legame, afferrando il toro per le corna, affrontando la questione che sta interrogando proprio ora la coscienza.

Quando vediamo una persona o un gruppo umano isolato e sofferente è quello il momento per cominciare a costruire il legame, senza paura.
Sono numerose le situazioni e gli avvenimenti che lasciano all’assurdo il campo libero in un mondo che, per tanti, è lontano dall’essere magnifico per rivelarsi solo drammatico.
Costruire legami necessita di una mobilitazione dell’intelligenza e del cuore per non cedere alla rassegnazione che sempre distrugge.
Ogni incontro è una possibilità di libertà che deve conoscere il rischio ricorrente delle forme della schiavitù, che hanno per nome la strada, l’isolamento, l’angoscia, l’irrisione, il disprezzo di sguardi che pensano che voi siate niente perché non avete niente, o molto poco e siate “nessuno”.
Lottare contro questa afflizione distruttiva di se stessi e degli altri vuol dire costruire legami che operano la trasformazione diafana delle relazioni umane.

Ogni volta che una persona è sul “filo”, costruire legami è lavorare sulla questione del senso; quando anche uno solo si perde, è la famiglia umana che si smarrisce e perde la sua unità.

Gustave Flaubert diceva: “non sono le perle che fanno la collana, ma il filo”: si tratta del filo della solidarietà, senza il quale l’umanità finisce. Siamo stati chiamati alla vita per aprire i nostri occhi ciechi, per uscire dal carcere delle nostre prigionie personali, dalla reclusione nelle tenebre[1], perché anche altri possano farlo, per non lasciar spegnere lo stoppino dalla fiamma smorta, per non cedere agl’idoli moderni (potere, successo, denaro, acquiescienza al male) la gloria dei figli di Dio.

 

[1] Cfr. Is 42,6-7.