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Semplice o complesso?

| Enzo O. Verzeletti - 17/11/2017


Semplice o complesso: poli intercambiabili nell’epoca del potere tecnico, dell’umanesimo “esodato” e della manipolazione del mondo, inteso come casa del genere umano.
Ci si attende dai religiosi che rinuncino alle astrattezze e al clericalismo,

imparino ad usare il linguaggio della contemporaneità, assumendo la prospettiva delle periferie del mondo, vivendo e promuovendo la spiritualità dell’unità e la cultura della carità.
Questo significa tornare a rivivere il sogno missionario di far giungere ovunque la semplicità eloquente del vangelo.[1]
Sono temi sui quali riflettere con profonda cura.
Come mai è diventato così difficile afferrare e trasmettere “la semplicità eloquente del vangelo”?

Qualcuno ritiene perfino che si debbano trovare degli esperti della comunicazione e dei social media per poter abitare “il sesto continente”, forse giornalisti o “maghi” del web. Specialisti per trasmettere un messaggio – il messaggio - di eloquente semplicità in un’epoca complessa.
Effettivamente il linguaggio degli specialisti, quelli che ci ricordano ad ogni piè sospinto la complessa complessità delle sfide epocali nelle quali ci troviamo, genera la percezione complicata delle complicanze: ottimo specchietto per le allodole.
Nell’epoca della complessità o abbiamo smarrito il senso del messaggio oppure abbiamo deciso di renderlo consequenzialmente “complicato”: un messaggio da iniziati, autocertificante l’appartenenza alla piccola setta dei “sapienti”, che permetta di essere puntualmente invitati a stare sul palco o seduti sulle poltrone dei convegni e dei salotti o di occhieggiare dalla vetrina del web.

Al contrario, tenere un discorso semplice, udibile, comprensibile da tutti appare piuttosto banale. Ma, attenti, si tratta di un esercizio non così evidente. Occorre prima comprendere e vivere l’eloquente semplicità del vangelo per realizzare il grande sogno missionario di portarla ovunque senza alterarne il significato e le sfumature.
I grandi pensatori, i grandi scienziati, i grandi politici, i grandi sviluppatori, hanno avuto spesso questo dono unico: spiegare quello che altri, neanche con una vita a disposizione, sono capaci di fare.
Non è dato a tutti “essere semplici”.
L’assenza, la mancanza di sforzo di alcuni “specialisti” per parlare alle folle è anche un mezzo per mantenersi tranquillamente “sull’Aventino”, al riparo dalle critiche e dalle scelte. Peggio, la complessità rivendicata e esibita è, a volte, attiva e “produttiva”. Ma, detto tra noi, è simile alla foglia di fico, atta a nascondere pudicamente le “miserie” – intellettuali – quelle capaci di dare l’illusione del sapere – facile da usare – quando il vuoto è sotto i riflettori, e dietro la vetrina luminosa.
Spesso la complessità è ugualmente invocata per nascondere verità poco piacevoli e per nulla confessabili. Nell’epoca della trasparenza – o delle trasparenze – si convoca la complessità per nascondere ciò che disturba e per farci perdere dentro il labirinto dell’artificiale e del soggettivo.
Benintesi, sia chiaro: le tecnologie del XXI secolo non hanno niente a che fare con quelle dell’epoca preindustriale!
Tuttavia, crediamo ancora sia stato più facile vivere ieri che oggi?
Che ieri non si necessitasse di tesori di ingegno per conoscere la natura, non morire di fame, viaggiare senza problemi, vivere più di 50 anni senza ferirsi o farsi male? Ricordate l’audacia missionaria dei nostri avi?

Il mondo, ieri, – ma anche oggi per buona parte dell’umanità – era molto più complesso da affrontare rispetto all’attualità del clicca o striscia uno screen, dell’iper-connessione e dello smartphone, che aprono l’illusione di controllare e dominare al mondo e parlare ai suoi abitanti.
Per altri – per tanti, per troppi – resta ancora molto complicato anche “solo” arrivare a fine mese.

C’è un’altra complessità della quale si parla poco, o mai, che è reale e che perdura da secoli.
Si chiama miseria materiale, spesso anche fisica o morale. Ed è difficile uscirne o aiutare a uscirne, utilizzando l’idea che ci facciamo della povertà. Non si tratta d’ideare unicamente – e ben vengano - progetti di sviluppo tradizionali o iniziative sporadiche volte per lo più a elemosina.
La miseria attraversa le generazioni e si riproduce con esili speranze di miglioramento e non è la stessa cosa della povertà di spirito di coloro che abitano – già ora e non domani – il regno dei cieli. Questi ultimi oggi potrebbero essere fin troppo pochi.

Ironia della sorte c’è pure un abuso nel linguaggio corrente: l’abitudine di dire che questi poveri – quelli che vivono in misere condizioni materiali - “vivono semplicemente”! Ma procurarsi il pane quotidiano non è semplice per chi è onesto! E per chi il lavoro non ha o è – in nome del mercato – sfruttato.

La complessità è, quindi, una nozione relativa. Noi, i contemporanei, abbiamo la tendenza a invocarla ad ogni istante come il segno della nostra supposta superiorità o, in alternativa, come scusa per la nostra inettitudine. Difficile, cioè complesso, fare qualche cosa… o aprire la porta del convento.
Purtroppo si tratta di un’illusione che conviene smascherare al più presto. Le cose più semplici spesso sono quelle più complesse da realizzare, siano esse quelle della vita di tutti i giorni o in materia di riflessione, o, se volete, pure nel mettere a disposizione le tecnologie moderne, o il pezzo di pane.

La semplicità però è anche sinonimo di robustezza, la complessità di fragilità.

E se noi decidessimo, alla fine, di essere un po’ più robusti per poter affrontare con fiducia l’attraversata di questo nostro secolo?
Beato quel servo che il padrone, arrivando, troverà al suo lavoro.” (Lc 12, 43).

[1] Si veda la prolusione del Cardinale Gualtiero Bassetti al Consiglio Episcopale permanente del 25 settembre 2017.


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