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Sassifraga di Natale

| Enzo O. Verzeletti - 17/11/2017


La Sassifraga si è incuneata in una fessura del cemento. Sta sbriciolando il muro.

Una manciata di fiorellini che rompono i sassi. È vero, ne esistono decine di specie, con un bisogno limitatissimo di terra.
Vita portata dal vento, non piantata; volatile, sparsa per il mondo, cresce. Nonostante il freddo. O il caldo. Tenace. Spinge. Si tende per fare breccia, allargare, farsi spazio, creare lo spazio di una vita. È un accadimento. Che smuove e scombina quello che c’è intorno.
Col nascere si propone per trasformare, quasi avesse un’energia propria.
Non attende l’opera o la mano di un uomo e nemmeno spera in un terreno fertile.
S’accontenta di un po’ di umidità e di polvere.
Tutto ciò che sembra essere solido non sa resisterle.
Sbriciola un muro, si incunea nel duro pavé, caparbia, più delle granitiche certezze che la circondano.

Mi piace la Sassifraga. Mi piace guardarla, osservarla, lasciarle la parola. Non mi disturba il suo lento e silenzioso lavorio di demolizione di manufatti. Mi stupiscono sempre la forza, la tenacia, il coraggio.
C’è in lei la fedeltà al piccolo, all’insignificante, e insieme l’aspirazione alla libertà, che rende generosa e ospitale la poca terra, garante della sua esistenza.
Come fare l’elogio di una micro-potenza che slega e frattura il compatto, paralizzante cementificato, pietrificato, duro, sterile, impermeabile suolo per mettere radici?
Si. Radici.

Cosa ha messo radice?
Cosa si è radicato nel suolo, nella terra, nel sangue, nelle origini, nei miti, nella religione?Cosa ha radici?
Cosa resta delle spinte degli anni 60 e 70 introdottesi come sassifraghe nel tessuto sociale?
Cosa è rimasto delle sassifraghe classiche, dei partiti, dei sindacati?
Cosa è rimasto del Concilio Vaticano II?
Dei fiori in vaso?
Si. Dei fiori in vaso. Annaffiati, concimati, tenuti in vita dagli algoritmi del liberismo economico, che silenzia e addomestica anche il linguaggio.
Parole in mostra come fiori sui davanzali, sui balconi, sugli attici che fanno bella mostra di sé, irraggiungibili, protetti, inutili.

E le sassifraghe?
Ce n’è una specie, che continua a rinascere portata dal vento, messaggera di un Accadimento che infrange la durezza del suolo nel tempo dell’Attesa.
In un attimo il deserto fiorisce, gli occhi dei ciechi si aprono, si schiudono le orecchie dei sordi lo zoppo salta come un cervo, grida di gioia la lingua del muto, scaturiscono acque nel deserto, scorrono torrenti nella steppa.[1]
Una profezia poetica affidata all’occhio che la legge sotto forma di promessa, nell’attesa della sua realizzazione.
L’attesa di ritornare alla terra promessa per il popolo d’Israele dell’epoca di Isaia, deportato a Babilonia.
L’Attesa sempre iscritta per tutti nel tempo dell’Avvento, nel tempo della storia, nella storia del popolo che cammina lungo la notte finché il giorno sorga.
Il tempo della Parola portata dal Vento che mette radici, frantumando il cuore di pietra.

 

[1]Cfr. Isaia 35.