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Rovi e spine

| Enzo O. Verzeletti - 17/11/2017


Ormai sembra che nessuno esiti ad affermare e motivare l’ampiezza della crisi ecologica. Mentre la crisi di civilizzazione che la causa resta non identificata e poco percepita.
Detto altrimenti esiste una causa ecologica ben chiara nella mente di tutti, esiste una causa antropologica ignorata o trascurata.

Non esiste formazione politica che non includa, almeno a parole, rimedi per risolvere la causa ecologica, mentre non esiste formazione politica che osi anche solo nominare la causa antropologica.
Qualsiasi passante incontrato per strada sa cos’è la causa ecologica. A colpo sicuro vi parlerà del riscaldamento del clima e dell’effetto serra, dell’inquinamento della terra, dell’aria e dell’acqua, dello sfruttamento delle risorse non rinnovabili, del pericolo rappresentato dall’energia nucleare, qualcuno aggiungerà qualche parola sui problemi legati alla biodiversità e concluderà perfino dicendo che è urgente ridurre l’impatto ecologico dei paesi industrialmente avanzati.
Tutto vero.

Troppo pochi si rendono conto ancora che la preoccupazione di salvaguardare la natura e il pianeta è correlata alla necessità di difendere la ragione umana e l’umanità in generale.
La scienza e la tecnologia, prive di consapevolezza antropologica, di una visione dell’uomo, dettano legge in alcuni ambiti che sfuggono totalmente alla loro capacità di controllo.
Non è questione di destra o di sinistra chiedersi che tipo di umanità vogliamo essere e quale sia il nostro modello di uomo.
È una domanda che esige il lavoro del pensiero e iniziative coerenti, possibilmente non conflittuali ma condivise.
Come esiste una cultura della salvaguardia del pianeta dall’inquinamento ambientale, è necessario ricostruire una cultura della salvaguardia del soggetto, dal quale quest’ambiente dipende, contro l’inquinamento del pensiero.

L’uomo è allo stesso tempo lavoratore, produttore, compratore e consumatore. Non ha più tempo per riflettere sulla propria condizione di essere umano.
Il capitalismo tardivo è il regno universale della mercanzia e del pensiero truffato, inverte ingannevolmente i rapporti fra soggetto e oggetto, rendendo cosa l’uomo, personificando le merci ed i servizi, inquinando non meno dell’acqua, dell’aria e della terra, la capacità di pensare e di vivere.
Tutto, anche la formazione delle persone, soggiace al profitto; abbiamo dimenticato che la cura dell’umano non ha prezzo, e l’uomo e la sua opera, in linea di principio, neanche.
L’uomo attuale si pensa artefice del proprio destino e contemporaneamente gruppi di uomini credono di tenere sotto controllo il pianeta senza che alcuno sappia con certezza se ne abbiano le capacità e le possibilità. È il delirio delle minacce atomiche e dei padroni dei big data.

Assistiamo ad un’incontrollabile evaporazione del senso e alla contestuale proliferazione dei “senza”: fissa dimora, lavoro, diritti, doveri, avvenire.
Questa liquefazione dei valori non è forse più grave dello scioglimento dei ghiacci polari, anzi, iniziata in sordina, non ne è in ultima analisi la causa sostanziale?
Da qui il sentimento diffuso e forse un po’ troppo apocalittico, di una umanità senza pilota che stia andando dritta contro il muro, sia ecologico che antropologico.

Clima da fine impero romano?
Perché al posto delle blande lamentele quotidiane non si dicono le cose come stanno?
Perché porre la questione antropologica è incriminare direttamente il maltrattamento strutturale dell’umano, mentre la causa ecologica rimane dentro il sistema e non fa paura alla finanza mondiale, non disturberà né il FTSE MIB 30, né il CAC 40.

Mentre i frutti maturi del pensiero ecologico fanno bella mostra di sé nelle boutiques dell’agricoltura biologica, a favore di un manipolo di adepti, stiamo ancora mangiando i frutti acerbi, colti tra rovi e spine, di un pensiero politico ed economico che avvelena con pesticidi, OGM, bisogni indotti, tecnologia inutile, lavoro nero, sottopagato e nei giorni festivi, disoccupazione, sfruttamento scriteriato di risorse naturali, tutto il genere umano.

Si rinnovano le parole del profeta:
Isaia, cap. 5 (traduzione TILC)

Il canto della vigna.

1Voglio cantare una storia:
è il canto di un amico e della sua vigna.
Il mio amico aveva una vigna
su una fertile collina.
2L'aveva vangata e ripulita dai sassi;
vi aveva piantato viti scelte,
vi aveva costruito una torretta di guardia
e scavato un pressoio per pigiare l'uva.
Sperava che facesse bei grappoli
ma la vigna produsse solo uva selvatica.
3Allora disse il mio amico:
"Abitanti di Gerusalemme e di Giuda,
fate da arbitri tra me e la mia vigna:
4potevo fare di più per la mia vigna?
Perché essa mi ha dato solo uva selvatica 
e non l'uva buona che io mi aspettavo?
5Ecco quel che farò alla mia vigna:
le toglierò la siepe d'intorno,
abbatterò il muro di cinta,
la farò diventare un pascolo,
un ritrovo per animali selvatici.
6La ridurrò terreno incolto:
nessuno verrà più né a zappare né a potare,
vi cresceranno soltanto rovi e spine.
Dirò alle nuvole di non darle la pioggia."
7Anche il Signore dell'universo ha una vigna:
Israele.
Questa piantagione da lui preferita
è il popolo di Giuda.
Dio si aspettava giustizia
vi trovò invece assassinii e violenze,
chiedeva fedeltà
udì solamente le grida degli sfruttati.