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Galilea delle genti

| Enzo O. Verzeletti


Tre donne sono fuggite davanti al sepolcro spalancato, tremanti e stupefatte, e non hanno raccontato nulla dell’accaduto ad alcuno perché hanno avuto paura.

È strano questo racconto che narra la visita delle donne al sepolcro.
Marco offre di questo evento una versione alquanto particolare e diversa da quelle proposte negli altri vangeli, percepita molto presto come imbarazzante.
Nel secondo secolo della nostra era, ciò che costituiva nei manoscritti più antichi la fine del Vangelo di Marco (il versetto 8 del capitolo 16) è stato continuato (portato a termine? Compiuto? Finito?) con i versetti 9 - 20.
I versetti aggiunti armonizzano il testo di Marco con gli altri Vangeli e attenuano la natura brusca e perfino scioccante del racconto.
Gli otto versetti precedenti, come chiusura del secondo Vangelo nell’antica versione, offrivano una testimonianza per lo meno sorprendente: le donne che seguivano Gesù e che ora vanno al sepolcro per imbalsamare il corpo trovano la pietra rotolata; incontrano il giovane che le invita a dire ai discepoli di andare in Galilea dove Gesù li precede; reagiscono fuggendo tremanti e stupefatte; non dicono nulla ad alcuno per paura.

La storia del Vangelo finiva qui? Oppure la fine è andata perduta?
Domanda senza risposta che gli esegeti si pongono regolarmente.
E se la brusca fine del Vangelo di Marco coincidesse veramente con la chiusura del suo scritto?
A ben guardare, le donne hanno poi parlato, hanno divulgato la notizia, quindi non tutto è finito con il silenzio dovuto alla paura; la nostra presenza ne è la prova. La Buona Novella si è diffusa.

L’interruzione mi provoca però ad andare oltre per comprenderne il senso.
Potrebbe darsi che Marco abbia scelto volontariamente d’interrompere il suo scritto sulla paura e sul silenzio delle donne.
Cerco di seguire il senso dell’interruzione senza ricorrere automaticamente a Matteo, Luca o Giovanni.

Fra tutti quelli che hanno seguito Gesù mentre insegnava in Galilea, rimangono solo le donne. Sono lì, da sole, e guardano da lontano mentre il Maestro viene crocifisso.
Pur spaventate e silenziose sono le uniche testimoni continue, capaci di stabilire un legame tra il predicatore del Regno, il guaritore di folle, il morto miseramente crocifisso, il corpo collocato nella tomba e colui del quale si constata l’assenza nel sepolcro la mattina di Pasqua.
C'è un contrasto impressionante tra ciò che costituisce il cuore stesso della fede cristiana (l'annuncio pasquale del Cristo Risorto) e coloro che sono incaricate di testimoniarlo per prime: tre donne spaventate.
Com’è possibile che il giovane dalla veste bianca affidi il compito di trasmettere un messaggio così importante ad un gruppo così “poco affidabile”? Perché proprio a tre donne che si spaventeranno e rimarranno silenziose? All’epoca dei fatti, tra l’altro, la testimonianza delle donne era considerata nulla dal punto di vista della legge.
Ancora una volta la volontà di Dio appare paradossale: la verità del Vangelo, la sua forza, il suo cuore, la vittoria del Cristo sulla morte, è qui legata alla fragile possibilità di parlare di poche donne.
Donne che ad un certo punto si pongono anche una strana domanda: "Chi ci farà rotolare la pietra all'ingresso della tomba?”
A prima vista è una domanda stupida, il semplice formularla mentalmente avrebbe dovuto scoraggiarle, avrebbe dovuto essere sufficiente per farle desistere dal mettersi in cammino verso un progetto in pratica irrealizzabile, ma con tutta evidenza sostenuto da un qualche tipo di speranza.
Questo interrogativo trasmette anche l’idea precisa di ciò che le donne hanno in mente di fare: aprire la tomba non perché il defunto si risvegli ovviamente, ma perché il corpo sia unto con olii aromatici.
Con volontà decisa, senza evidente possibilità di riuscita, animate da una qualche vaga speranza, si accingono a preparare il corpo del defunto per l’ultimo grande viaggio.
Dentro l’interrogativo folle delle donne c'è forse anche un’altra speranza confusa, non detta, una speranza che i perduti discepoli non condividono neppure più: quella di vedere Gesù un’ultima volta. Dietro questa confusa speranza non c’è l'attesa della risurrezione, ma un’unica possibilità concreta: il commiato definitivo, suggellato dal pianto triste o disperato.
A questo punto si fanno strada una serie d’indizi illuminanti: l’osservazione di qualcosa che manca, il tentativo di trovare qualcosa che non c’è, un incontro inatteso, una voce che, con quel fatidico “Li precede in Galilea”, sembra voler dire: “Quello che cercate non è qui, è completamente diverso da come ve lo aspettate, lo troverete più tardi se ricominciate da dove vi eravate fermati.”

È qui che si chiarisce il senso dell’interruzione al versetto 8: la risurrezione del Cristo arriva come una rottura con un vecchio modo di pensare, cercare e sperare di trovare. Non si tratta di un'illusione collettiva, ma di un nuovo inizio che non è previsto ed è per questo che fa paura e talora si preferisce (inutilmente) il silenzio: perché non corrisponde a nulla di ciò a cui ci si è preparati.

Sappiamo solo dov’è questo inizio: in Galilea.
Non in cielo, non nel palazzo di Pilato, non nel Sinedrio.
Tutti s’ingannano nel tentativo di sopprimere questo inizio, che è appunto l’alfa e l’omega della vita.
È in Galilea. Ora.
Nei posti che conosciamo, dove siamo soliti vivere, sulla terra, dove colui che cercavamo o ciò che cercavamo quando ci eravamo fermati ci sta già aspettando sotto una veste inattesa per camminare ancora per strade e sentieri. Non sono le strade e i sentieri ad essere nuovi, siamo noi a non averne mai percorso alcuni o ad esserci lasciati sfuggire qualcosa in quelli che stiamo percorrendo, per aver dormito, o per esserci lasciati ingannare.
Ci troveremo ancora a discutere con gli scribi, con i sadducei e con i farisei, ad insegnare, a governare, ad aiutare qualcuno, a confrontarci con altri. Ma alla luce del sepolcro vuoto.

La Buona Novella non è un romanzo a lieto fine; quando l’ho ascoltata dall'inizio alla fine molti anni fa non ho potuto più ritornare nella mia Galilea come se fossi uscito da una sala di proiezione e andarmene indifferente davanti a ciò che era appena successo sotto i miei occhi.
Non è stata un'illuminazione soprannaturale, non si è trasformata in una contemplazione beata, ma in un percorso con altri, persona fra altre persone, persona con altre persone con pensieri, parole, convinzioni, dubbi, emozioni, timori, intuizioni.

Dire che il giovane con la veste è l’uomo nuovo significa assistere alla nascita di un nuovo modo di pensare, essere ed agire con gli altri per trovare l’inatteso a cui non abbiamo creduto quando ci siamo fermati.
Da questa prospettiva posso comprendere me stesso e vedere la nullità delle solitudini ostinatamente e orgogliosamente ricercate. O sono con gli altri e per gli altri o mi fermo. Sempre.

Se sono ostaggio delle mie aspettative, della paura e del silenzio non si colmerà mai - né per me, né per l'altro da me - il divario costante che si è scavato tra ciò che Gesù ha rivelato di sé e ciò che gli uomini hanno capito di lui: lo stavano aspettando come re e si è manifestato come servo, era atteso come vincitore e si è rivelato come uno che accetta di perdere la vita in modo tragico e disonorevole agli occhi dei più, lo stavano aspettando forte e si è mostrato volontariamente debole.
E quando alla fine donne e discepoli non si aspettano più nulla, si è rivelato vivo.

Oggi sappiamo che qualcuno continua a chiamarci, anche se siamo umanità spaventata, silenziosa, incredula. Il paradosso vero consiste non nella risurrezione, ma nella possibilità continuamente offerta di andare al di là delle nostre paure, quando sembra che non ci sia più nulla da fare e, per la grazia che il Cristo ci fa, esattamente dove ci precede e ci sta aspettando: sul sentiero delle nostre vite.
La paura non avrà l'ultima parola, non farà sempre tacere in noi ciò che vorrebbe parlare.

Quindi questo breve finale di Marco è veramente un incompiuto?
Sì, per me senza dubbio.
Incompiuto come incompiute sono tutte le nostre vite.
Le nostre vite sono rese possibili dalla loro attuale incompiutezza.
Se questo fosse il mistero della risurrezione di Cristo?
Se ci fosse ancora qualcosa nelle nostre vite che non è finito, che non è ancora stato scritto?
Per noi che vorremmo tutto contenere, tutto controllare?
Ecco: ora il Vangelo ci dice che la vita è possibile, che c’è ancora bisogno dell’incompleto, del non finito, dell'imprevisto.
Non è necessario che tutto sia scritto in anticipo.
Non-destino. Solo un-possibile.
Questa è risurrezione: possibilità offerta a tutti di entrare e passare attraverso questa breccia di vita per proclamare che il Risorto permette alle nostre vite di aprirsi all'inaspettato.

Torniamo quindi come in un cerchio chiuso su se stesso al giovane del lenzuolo.
Nelle scorse settimane ho proposto d’includere il percorso del giovane nudo come riferimento all'esperienza del battesimo nella Chiesa primitiva: durante la veglia pasquale i neo-battezzati si spogliavano dei loro vestiti per immergersi nudi nell'acqua, simbolo del passaggio dalla morte alla vita.
Quando uscivano dall'acqua indossavano vestiti nuovi, bianchi, in segno della loro partecipazione alla gloria del Risorto.
Non è quindi banale che il giovane nudo (Mc 14,51-52) venga ritrovato in Mc 16,5 all'interno del sepolcro, vestito di bianco nella mattina di Pasqua, pronto all’annuncio.
Forse Marco ci ha offerto qui la sua comprensione dell'esperienza di fede: è passando attraverso la prova di una particolare forma di fuga (Mc 14, 51-52), composta come azione dissolvente di una falsa immagine incatenata in uno schema fisso, che il giovane può diventare testimone della vita nuova, offerta dal Crocifisso vittorioso sulla morte.
La fede, si dice, – e questa è anche la mia fede – sta al cuore del dubbio e della ricerca ed è simile a quella del padre del bambino epilettico che grida "Credo, Signore, ma vieni in soccorso della mia incredulità."(Mc 9, 24).

Buona Pasqua!