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Dissonanze

| Enzo O. Verzeletti


Come si giunge a negare l'ovvio?
In psicologia sociale fin dagli anni cinquanta del secolo scorso è stata elaborata una teoria...

...che risulta utile per fornire risposte a questa domanda: si tratta della teoria della dissonanza cognitiva.
Supponiamo che una persona creda sinceramente in qualcosa e sia attivamente coinvolta in comportamenti sociali coerenti con le proprie convinzioni e abbia infine portato a termine atti non più reversibili, che hanno avuto un impatto negativo sul suo gruppo sociale di appartenenza.
Se a questa persona venisse presentata una prova inconfutabile e inequivocabile del carattere errato delle sue credenze, normalmente cercherebbe di ricostruire la coerenza tra il suo modo di pensare e il suo modo di agire, rivedendo le proprie convinzioni, cambiando atteggiamenti ed elaborando soluzioni nuove improntate ad una maggiore positività per se stessa e per gli altri.
Non sempre però sfortunatamente le persone reagiscono così.
Molti, quando si trovano davanti alla prova inconfutabile delle stupidaggini commesse (e quindi sono nella caratteristica situazione di “dissonanza cognitiva” fra ciò che esiste nella realtà quotidiana e il proprio sistema di credenze sbagliate), non solo non ne sono minimamente scossi, ma tendono a risolvere le loro dissonanze interiori rafforzando le proprie credenze errate: il meccanismo può essere o diventare patologico. In altri termini si nega la realtà, ci si fa portatori di “verità assolute”, spesso si mostra un nuovo ardore nel convincere e nel convertire “i profani”, con ciò puntando volontariamente e ostinatamente ad esiti più o meno catastrofici.
L'analisi dei dinieghi della realtà dei dissonanti-offuscati-convinti conserva per gli altri un sentore d’irrazionalità che può risultare perfino rassicurante. Spesso la persona in buona salute e normodotata si chiede: “Ma è possibile? Farà sul serio?”.

Bisogna ammettere in ogni caso che la difesa opposta dall' “uomo di fede” alla realtà che lo smentisce si applica in generale in tanti luoghi del vivere civile: dalle chiese ai parlamenti, dalle scuole alle università, dalle piccole associazioni culturali ai partiti, dai fumetti ai quotidiani.

Quale male influenza le menti di coloro che non possono mai essere d'accordo sul fatto che si sbagliano? Forse tratti psichici condivisi con le sette millenaristiche? In Italia queste ultime sono difficili da analizzare perché sono rare, tuttavia avendo sotto gli occhi esemplari non così rari di leader politici dissonanti, convinti e offuscati non è poi così difficile accorgersi che i dinieghi della realtà somigliano in molti casi ai protervi paralogismi della malafede.
Provate a rappresentare loro il vostro disaccordo! Vi gireranno le spalle.
Mostrategli fatti e cifre! Vi diranno che ve le siete inventate.
Fate appello alla loro logica! Vi diranno che “questo non c’entra”.
Purtroppo sappiamo tutti per esperienza quanto sia inutile e forse anche controproducente scalfire una certezza sbagliata, tanto quanto granitica, sia proveniente da una patologia, sia proveniente da pura malafede.

Mi urge fare un’altra considerazione: se di malafede si tratta, e non di patologia, la malafede è sempre indice di mediocrità intellettuale e morale.
E la mediocrità intellettuale e morale è pericolosa perché porta a non comprendere i propri fallimenti, ad allineare cliché, abitudini e incongruenze. In breve a perseverare nell’errore. E quando si coinvolgono altri nel proprio errore, nonostante gli avvertimenti, è ancora più pericoloso, perché si destabilizza il terreno dove anche l’altro radica. In termini molto più generali rivoluzioni, colpi di stato, dittature, conflitti, guerre nascono tutte da questo grande errore di fondo: pochi, in malafede, difendono la propria verità/interesse e destabilizzano il tessuto sociale. Nei casi più gravi, la storia ce lo insegna, destabilizzare il tessuto sociale è perfino una strategia che a qualcuno conviene.

Per esempio, cosa possiamo dire dell'ostinazione della politica in Italia? Basta imbellettare con formule e numeri la fede nell’autoregolamentazione dal mercato per far dimenticare a tutti che si tratta solo di un'altra forma di fede nella provvidenza che resiste ostinatamente alla ragione?
Rileggere la stampa di due decenni è sufficiente per convincersi che nulla è cambiato nei principali orientamenti politici. Perché si persevera? A chi conviene?
Se gli stessi obiettivi continuano ad essere sbandierati, ci sarà forse qualcosa che non funziona da vent'anni! Forse le credenze sono sbagliate!
Invece naturalmente si proclama che non esistono altre politiche possibili.
Cosa dicono i nostri leader politici se falliscono, se perdono le elezioni o se non riescono a formare un governo? Di chi sarà la responsabilità? Non certamente la loro! Su questo non ci sarà da dubitare. Si troverà sempre il capro espiatorio di turno: chi c’era prima, la situazione sfavorevole, il popolo e la sua pancia, le fake news, gli hacker russi, la stampa o la semplice sfortuna.
Ciò non impedirà ai responsabili di cercare – e trovare –una poltrona da qualche parte, a Bruxelles o altrove in qualche consiglio di amministrazione – di beni altrui – come quando i signori della guerra – sconfitti – ricevettero ancora il potere dalle mani del paese che non erano stati in grado di governare.
È possibile che i politici in blocco soffrano cronicamente di problemi di dissonanza cognitiva per il fallimento di una profezia[1]?

Il mercato non è un dio. Può capirlo agevolmente chiunque, ne sono sicuro; non dovrebbe essere necessario che anche un prete lo debba illustrare, sia pure missionario, sia pure vissuto a lungo nel terzo mondo.
Io però mi trovo a dirlo: in tutto il mondo ci si è ridotti a credere nel dio-mercato, illudendosi perfino che possa essere equo, solidale ed etico.
Ingiustizia, povertà, malessere sociale a livello globale sono forse la prova inconfutabile di qualcosa?

Io credo che occorrano soluzioni nuove e più positive per il mondo intero, che occorra riscoprire il senso dell’essere insieme in un mondo dove il pane sia per tutti e dove la miseria di molti non sia il prezzo da pagare per il benessere sfrontato e purtroppo inutile di pochi.
Se ne dovrebbe occupare la politica a livello nazionale e internazionale, avocando a sé il diritto/dovere di mettere fine alla mediocrità intellettuale e morale in campo economico e mettendo al bando malafede e patologie: non sarà facile, ma è indispensabile per un’ “economia di pace”.

 

[1] Cfr. Leon Festinger, Hans Rieken, Stanley Schachter, L’échec d’une prophétie, PUF, 1993.

N.B. Immagine introduttiva: Bruegel il Vecchio, Gli Storpi, 1568 (Parigi, Louvre).