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Al tempo giusto

| Enzo O. Verzeletti


A Villa Borghese, nel verde dei giardini, c’è un orologio ad acqua, curiosa torretta piantata in mezzo ad una fontana: è fornito di un ingegnoso meccanismo, il cui getto d’acqua garantisce il moto del pendolo e la carica della suoneria.

Fu messo a punto nella seconda metà dell’Ottocento da un frate domenicano, Giovan Battista Embriaco.

Se penso allo scorrere del tempo e all’acqua, per prima cosa mi viene in mente che il tempo sembra scorrere come l’acqua di un ruscello.
Solo dopo mi sovviene che è utile misurarlo per una serie di ottimi motivi.
Il tempo scorre veramente come l’acqua di un ruscello?
Il tempo scivola lentamente come la sabbia delle clessidre?
Il tempo è scandito dal suono delle campane delle chiese?
Il tempo è misurato dal battito del metronomo?
Il tempo è divisibile in frammenti continui così come viene rappresentato negli orologi?
Il tempo esiste veramente come si evincerebbe dall’esperienza quotidiana?

Con sgomento ho appreso da un documentario divulgativo che Alfred Einstein scrisse una volta in una lettera che passato presente e futuro sono solo un’illusione, per coloro che “credono” nella fisica.

L’affermazione viola il senso comune, la questione è complessa, anzi è misteriosissima.
Fiumi d’inchiostro sono stati profusi in filosofia e nelle scienze sulla questione del tempo e il fior fiore dei pensatori continua a pensare attorno a questo mistero.
Ci si chiede anche come funzionino gli orologi biologici; spesso al di sotto della soglia della nostra consapevolezza, - o al di sopra? - l’orologio biologico ritma le nostre esistenze lungo una dimensione essenziale tanto per gli animali, quanto per le piante e perfino per i microbi.
L’orologio biologico, questa sorta di meccanismo incorporato nel mondo vivente, facilita l'adattamento ai cicli delle stagioni e spiega, per esempio, sia la depressione stagionale nell’uomo che l’esplosione di vitalità nel periodo dei cicli riproduttivi della natura.

Noi, malgrado tutto questo, abbiamo a che fare, comunemente e concretamente, con la sensazione che non ci sia abbastanza tempo: ogni attimo sembra esaurirsi in un battito d'ali di farfalla al di sopra di una candela.
Non sarà per caso una questione di “distanza”?
Troppo lontano dalla candela la farfalla non ha luce sufficiente, troppo vicino rischia di far bruciare le sue ali.
Ancora più straordinariamente anche Gesù sembra essere a corto di tempo: ha fame ora, e dunque se la prende con un fico che in questo momento frutti non ne ha (cfr. Mc 11,13-14).
Che c’entra? Perché tanta impazienza?
Il fico segue il ciclo delle stagioni, quello misurabile: ha il suo orologio biologico; per Gesù il tempo è quello indicato dalla parola greca kairos, il tempo dell’agire appropriato al momento giusto, dell’agire ora, non prima, non dopo.
Quando lo Spirito soffia è tempo di kairos, il tempo dell’essere presenti con l’agire appropriato; il Figlio di Dio passa ora e se ora il fico non è pronto l’effetto potrebbe essere disastroso: nessuno potrebbe mai più mangiare dei frutti di quel fico.
Gesù, come sempre, ribalta tutte le nostre prospettive scontate. Ed è tempo di kairos perfino quello del tradimento, quando il fine ultimo del “grande progetto” è ben altro rispetto a quello che gli uomini riescono ad immaginare. A Giuda infatti Gesù dice: “Quello che devi fare, fallo al più presto!” (Cfr. Gv 13,27).

Noi oggi soffriamo di una crisi del tempo e, anche, siamo in tempo di crisi.
La crisi, il momento critico, indica la presenza di una condizione, di un’occasione decisiva nell'evoluzione di un processo incerto. La crisi può risolversi o sparire come fine di un tempo.
La crisi contemporanea sembra non risolversi e non avere fine: ci regala i suoi effetti senza farci intravedere l’uscita. Sarà diventata una nuova norma alla quale adattarsi indefinitamente? Se è così, la si può ancora definire crisi?
In queste condizioni, si può ancora parlare di crisi nel senso proprio del termine?
Una volta chiarita questa specie di aporia, nel tentativo di trovare una via d’uscita, dovremmo forse rovesciare la questione e chiederci se non sia proprio il nostro rapporto con il tempo la causa della presunta incapacità di uscire dalla crisi.

Gli eventi si susseguono linearmente e non sembrano inscritti in una prospettiva o in un progetto, sembrano piuttosto svolgersi inevitabilmente, imponendosi come “corso delle cose”.
Talvolta sembra che la pressione del momento blocchi nell'impotenza.
Per lanciare un altro sguardo sulla contemporaneità, anche dalla cosiddetta crisi petrolifera del 1974, non si è più smesso di parlare di crisi. Anzi, c’è stata un’apparente accelerazione e ora sembra prevalente il sentimento che dalla crisi economica sia impossibile uscire: la crisi bancaria del 2008 ha provocato la crisi finanziaria, che si è trasformata in crisi del debito, che ha provocato la crisi dell'attività economica, che a sua volta genera nuovi deficit.

Dobbiamo comprendere che l’ossessione della crisi non riflette solo una realtà oggettiva, ma soprattutto l'esperienza vissuta dell’incapacità d’immaginare l’orientamento verso il futuro: se non vedo altro, se sono confinato ora per ora nella mia ora di sessanta minuti e trecentosessanta secondi, organizzato attorno allo scorrere del tempo segnato dall’orologio per “ottimizzare il mio tempo”, nell’illusione di averne il controllo, il tempo del kairos è decisamente perduto.
Svanisce la percezione dello spirito che soffia, e non ci si accorge del passaggio del Figlio di Dio, e con questo svanisce la possibilità di dare frutti.

In una società malata del culto dell'urgenza, priva di tempo, iper-tecnologica, caratterizzata dal costo dell'eccellenza, dalla tirannia della visibilità a tutti i costi - all’interno della quale i singoli risultano individualmente sempre più disconnessi dalle proprie radici e privati della possibilità d’immaginare il proprio progetto di vita - esiste un evidente legame tra velocità e numero di attività da svolgere; la sfida principale è quella di andare più velocemente e fare più cose contemporaneamente.
Qualcuno la chiama "dittatura dell'urgenza" ed è vero che ha contribuito a diffondere norme sociali che hanno a che fare con il mito dell’organizzazione oraria del tempo: velocità, performatività, flessibilità, mobilità, reattività (o proattività), assertività.
Queste norme assumono talvolta la forma di una disciplina estraniante, divenuta modo di pensare e agire ormai interiorizzato, socialmente obbligato prima ancora di essere stato compreso, in certi casi addirittura eccitante, perché può creare una sensazione di vortice esistenziale mentre è solo un artefatto di vitalità e novità, mentre un faticoso grigiore iper-cinetico ci sfibra.
Nessuna meraviglia se la persona, per un attimo trovandosi da sola, si desincronizza, va “fuori tempo” e non vive più lo stesso presente degli altri.
Naturalmente non mancano i rimedi: yoga, meditazione, euritmia, disconnessione, pensiero positivo, slow questo e slow quell’altro…

Forse basterebbe porsi ad una certa distanza dal rumore di tutti gli orologi, dedicandosi alla libera riflessione ed immaginazione, all’intimità con se stessi, evitando per un poco il bombardamento degli stimoli esterni.
Potremmo così riordinare i ricordi, progettare il futuro, trasformare il nostro mondo interiore, modellandolo e facendolo più bello giorno dopo giorno, indugiando in una sorta di abbandono cognitivo per trovare nuovi scenari possibili. Questo fa parte del tempo della vita, del tempo del kairos, del tempo del vivere recando frutto.
Nessuna organizzazione perfetta della giornata, nessun orologio, neanche ad acqua, potrà mai misurare il valore di questo tempo.

Una volta, quando, giovane missionario, approdai per la prima volta in Cameroun, e, zelante, riempivo le mie giornate e quelle degli altri di tante cose da fare che mi sembravano tutte importantissime e bellissime, un vegliardo geniale mi disse:
“Padre, voi bianchi avete l’orologio, noi abbiamo il tempo.”


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